domenica 25 aprile 2010

In conformità a tutti gli anticonformismi di questo secolo, rifiutando ogni parola che rimandi a una corrente, elettrica – marina – o addirittura valuta, dichiariamo che mai più vedrete comparire ismi nei nostri discorsi ed è anzi già una pecca che sia stato utilizzato qui, ma meglio prima che a partire da ora perché qui inizia il nostro moto pigro e vi presentiamo il
MANIFESTO
del nostro PenZiero, già pensiero e mai prima d'oggi scritto né parlato. Crediamo in una manifestazione artistica che non sia avanti agli altri, ma che guardi avanti agli altri, correggendoli e prima ancora educandoli al non errore; non vogliamo tastare il suolo dello sconosciuto ma conoscere prima noi, poi voi, poi darci a voi e voi a noi (mangiarci reciprocamente): tutte cose che già esistono e sono facilmente accessibili. Per questo, e nonostante questo essendo comunque creativi, ci definiamo un movimento di retroguardia, che salva il salvabile e crea con quello che si trova in mano. Retroguardia non solo come contrario di avanguardia. La scelta del termine non vuole essere una banale contrapposizione che rigetta l’avanguardia e la contrasta proponendo chissà cosa di nuovo; è, al contrario, ciò che è necessario, in questo momento di traviamento delle menti, di acclamazione del design e di ricerca costante di un’originalità che purtroppo non fa altro che copiare o rimescolare ciò che già è stato presentandolo come originale. La retroguardia è protetta, quasi sicura: si guarda alle spalle, ma deve guardare avanti. La retroguardia dice no al colesterolo, ma soprattutto dice no a coloro che parlano di tutto e di niente, del tutto nel niente e del niente nel tutto; la retroguardia prende una posizione e la cambia quando le pare e come le pare, ma giustifica la sua mossa strategica con per lo meno un po’ di rigore critico e un attento sguardo sul mondo*.

Preso atto che:

  • esistono due realtà che ci importano, che sono quella del pensiero e quella della materialità. La prima sta nella nostra mente (da qui in avanti chiamata capo), la seconda tenta in tutti i modi di entrare nel nostro capo;
  • la felicità dell'essere umano sta nella felicità che si raggiunge nella realtà del pensiero, nella cosa pensata, e mai nella materialità perché essa non ci compete direttamente ma mediatamente;
  • il mediato è falsato dallo strumento, che va pertanto analizzato e compreso per attingere alla verità vera;
  • poiché non abbiamo accesso immediato alla realtà materiale, che disgraziatamente dobbiamo chiamare in causa per farci capire dagli imbecilli, per studiare lo strumento abbiamo bisogno di estrapolare informazioni dal sogno che ne fa la mente, ovvero – sempre per gli imbecilli, esciopiacere – le conseguenze;
  • alla luce di tutto ciò noi, tra il silenzio e la parola, scegliamo la parola, sebbene fallace, ingannevole, falsa (nella misura in cui pretende di rappresentare il pensiero, e non ci riesce e figuratevi il PenZiero), e ve la portiamo, senza alcuna pretesa di divinità, senza che sia la Parola, ma come gratis, come quel tale nei libri. Sì, quei libri. E perciò dichiariamo disordinatamente alla rinfusa

SULLA VERITÀ
che:
  • noi sappiamo che la verità è unica e dentro ognuno di noi. Ed ognuno ha la verità sua, nonché quella che si merita;
  • noi riteniamo ingiuste e sbagliate tutte quelle filosofie per cui la verità è unica e fuori di noi. Noi rigettiamo tutte quelle opinioni per cui la verità sia un oggetto trasmissibile, perché rifiutiamo la tradizione delle cose; e rifiutando questa, non accettiamo un terzo che venga a riferirci di questo oggetto estraneo. La verità è raggiungibile individualmente attraverso un procedimento che può essere trasmesso; esiste la tradizione del mezzo;
  • noi teniamo come opinione certa il fatto che il pensiero, ed il PenZiero, siano l'unica verità accessibile all'essere umano; noi non escludiamo che esista una verità vera al di fuori noi, ma non essendo immediata (per ora) la lasciamo ai maiali;
  • noi continueremo a cercare la verità vera che sta al di fuori di noi dentro di noi, e se non la troveremo sarà colpa sua, perché siamo per le cose semplici, e se la verità vera è complicata siamo pronti a farcene un'altra meno intrigata oppure intrigata uguale ma almeno più intrigante.

SULLA RAGIONE
Che, a torto o a ragione:
  • la Ragione non sta nel mezzo, a parte quando non ce ne importa nulla;
  • ce l'abbiamo sempre noi, poiché l'unica verità che conosciamo è quella interna a noi stessi, di conseguenza il Vero e la Ragione si corrispondono;
  • la Ragione non è un Dio. Noi siamo più per la penombra dimessa che per tanti lumi a spasso;
  • la Ragione non è un motivo, una causa o una ragione, ragion per cui ragion per cui e tutte le altre amenità legate alla costruzione di proposizioni causali sono da considerarsi forma non rispecchiante il contenuto, ovvero non conforme al pensiero bensì alla logica matematica, e tutto questo lascia il tempo che trova (quello che noi gli diamo – quindi attenZione).

SUGLI ACCADIMENTI
Che:
  • ci tangono solo quando ci riguardano personalmente o tangono chi fa le nostre veci, per cui raramente la cronaca ci impressiona;
  • non abbiamo colpe per ciò che accade, tuttavia non è nostra intenzione impedirne il decorso. Ciò non toglie la nostra volontà di controllare mentalmente, per cui in maniera efficace, gli accadimenti e tentare di prevederne gli effetti in misura difensiva;
  • l'accadimento non è semplicemente il sinonimo di un fatto: esso si verifica al di là di ogni nostra azione preventiva, nel nostro pensiero, ed è l'origine delle conseguenze che ad esso vorremmo far risalire, ancora ed esclusivamente dentro il nostro pensiero.

SUGLI ACCANIMENTI

Innanzitutto va analizzata la parola. Accanirsi: farsi cane. Diventa a questo punto necessario precisare la figura del cane nel nostro immaginario, ossia un esemplare di canide sempre gentil, una sorta di Buon Selvaggio nella vasta quantità di esseri viventi che popolano il pianeta a noi circostante. Fedeltà, vulpsaggine **, furbizia.
Detto questo:
  • facendoci cane noi esprimiamo la furbiZia che ci connota (essendo la nostra una verità imprescindibile dal PenZiero, nel momento in cui penZiamo di essere furbi, lo siamo poiché PenZiero = Vero = Ragione);
  • facendoci cane siamo mansueti di fronte agli accadimenti, poiché ne abbiamo già mentalmente stabilito il decorso quindi abbiamo la coscienza che fosse quello a cui ci eravamo preparati. Nessun sconvolgimento interiore dunque, che ci farebbe sbottare in uno scatto rabbioso. Farsi cane vaccinato?
  • Facendoci cane annusiamo tutti gli angoli del mondo e spesso vi lasciamo souvenirs.
  • Ringhiamo alla ringhiera delle terrazze del mondo, non senza davanti una buona tazza di tè per confondere i passanti;
  • la difesa dal mondo, l'esteriorità che ci circonda con la sua quadrangolirtà domestica, non è l'unica caninità accettabile;
  • accanimento anche e soprattutto come ostinazione nel proseguire questa lotta mentale per cui noi abbiamo capito e gli altri no, lotta, che i nostri avversari (ignari di esserlo) ignorano di aver perso in partenza, ragion per cui la nostra soddisfaZione accresce.

SULL'ACCADEMIA

Ci sembra opportuno iniziare dalla scomposizione voire vivisezione del termine: H / dé / mia: Acca - da non capire unacca -, dé (intercalare livornese), mia, la vita e le scelte. Fuori di qui gli ampollosi, i capelli brizzolati, la sciarpina di cachemere (che tanto ricorda il cauchemar) adagiata sul collo preferibilmente color panna (la sciarpina, non il collo) la montatura tonda degli occhiali.
Detto questo è giunta l'ora di annunciare agli accademici che:
  • si vede benissimo che usate la lacca (Laccademia) e non solo per gonfiarvi i capelli, non c'è niente di spontaneo in voi;
  • siete i detentori della verità al di fuori di voi stessi, quindi sbagliati per nostro principio;
  • preghiamo voi membri dell'Accademia di cessare la vostra attività claustrofobica di gareggiare per partecipazione ad eventi sedicenti importanti in cui il premio va a chi ha usato il linguaggio in maniera più oscura: cadete in contraddizione poiché se detenete una verità al di fuori di voi risulta meno complicato sia formalizzarla che spiegarla. Chi è il furbo a questo punto?
  • Non crediamo al vostro "Sarò breve". Menzogne.
  • La vostra è un'attività del tutto artificiale in cui non c'è niente che riguardi VOI STESSI, intesi come una mente-capo contornata da un corpo materiale, se non i vostri stereotipi da intellettuali che lasciano il tempo che trovano (e sono spesso molte ore, yawn).
  • Noi non vogliamo essere formalmente contrari all’Accademia, pur essendolo sostanzialmente. Crediamo che per esprimere il nostro senZo di malessere nei confronti di questa istituzione non servano strumenti di contrasto – banale sarebbe negare la possibilità della correlazione, e non vogliamo ridurci a farlo, confidando in voi – perché esso in qualche modo ci fa accettare la differenza, e pone in atto un dialogo anche aspro;
  • noi non dobbiamo parlare con l’Accademia, noi dobbiamo utilizzare quelle che essa considera armi come strumenti. Ergendosi a norma, gli accademici credono di poter plasmare la società in cui vivono, e di avere effetto sulle generazioni future per il merito della loro stessa sostanza – o presunta tale. Presuntuosi, Presunti untuosi, porchettari. Giammai: essi sono la descrizione e la rappresentazione supposta futura della morale, contro la quale noi andiamo sicuri della nostra convinzione di libertà. Loro descrivono una situazione, e noi attraverso la nostra aZione dimostriamo che la descrizione è fallace perché limitata, o campionaria, o statistica. Perché:
    1. Limitate sono le fonti a cui si attinge, e vi si attinge con l’idea che siano le uniche (nessuno di noi vi crede quando dite che conoscete i vostri limiti; la vostra arroganza non ha limiti neanche nel pudore);
    2. Estraete i vostri campioni, perché si riconosce alle fonti cui si attinge una diversa provenienza, che pur tuttavia assegnate a priori. Strutturalisti svergognati;
    3. Le vostre statistiche non sono un dato reale, e questo lo sanno anche i bambini. Sono quello che dicono di essere, senza nascondersi: un dato statistico.
    4. Se contrastassimo le arroganze con la forma, non avremmo che da perdere, accettando la vostra esistenza come altri da noi. Né vogliamo la vostra distruzione, perché la vostra diversità ci da l’onore dell’intelligenza, e la vostra imbecillità ci rende da sola meritevoli di quello che al momento nessuno ci tributa – ma la mancanza della rappresentazione della nostra essenza non è che un Adorno, e il non essere enfant prodige un sollievo (viviamo l’età in cui se non siamo ancora famosi non lo saremo mai, e resteremo soltanto affamati). Siamo pacifici, siamo disposti alla benevolenza e la nostra è veramente una condizione dell’animo, e le nostre citazioni pungono ma non vogliamo svelarvele;
    5. Vogliamo contrastarvi con la differenza, perché crediamo che l’evidenza possa essere negata ma non perda la sua forza. L’essenza del vero rimane anche negandolo, e la negazione che fareste voi accademici sarebbe un tentativo non pacifico di cambiare il corso degli eventi che irrimediabilmente vi celebra nel presente e vi condanna dal futuro nel vostro passato; siete la rappresentazione del presente, nella sua accezione di limitatezza. Restate nel finito, noi tendiamo il nostro pensiero, e il nostro sforzo, al non finito, all’imperfetto, al pensabile più che al pensiero pensato. Diciamo tutto il dicibile, dalla A alla Zeta; svoltiamo a poco a poco, ci allontaniamo discretamente dai vostri dettami, e quando saranno passati cinque minuti o dieci paragrafi, noi saremo evidentemente in ragione;
    6. La critica ha in se il senso della morte, perché parla al passato di un corpo presente. Ne fa la cerimonia funebre, e chi vuol essere nella bocca del prete al momento della predica, al funerale? Alcuni vorranno l’esaltazione delle loro virtù in morte, noi vogliamo quella della verità del nostro pensato in vita. Pare che sia falsa la notizia secondo cui le Università che più pullulano di cadaveri siano quelle di Medicina: nelle nostre biblioteche abbiamo visto morti di ogni tipo ammonirci con parole moraleggianti (che, manco a dirlo, sono rimaste parola morta). Touché, e con che bassi medii. Saggi saggi, se così la vedete: spazio riempito della materia, per noialtri; e con la peggiore pretesa, quella di sostituire con la materia le idee-cose che sono tante volte più grandi quando le pensiamo.

SULLA VITA VERA
Ripetiamo:
PenZiero (unico modo di conoscere il Vero) --> = Vero = Ragione
Da questo punto di vista, siamo in grado di modulare la vita attraverso il PenZiero. Così facendo:
  • solo attraverso il PenZiero possiamo entrare in contatto con la vita vera, che diventa per noi UNA ma allo stesso tempo MOLTEPLICE poiché il PenZiero non è uno, ma ne esistono tanti quante sono le menti penZanti. L'unico punto di contatto in questa moltitudine di menti è la loro caratteristica anticonformista;
  • la vita vera poiché penZata si trasforma quindi in vita GIUSTA secondo l'equaZione Vero = Ragione.

SULLA VITA SOGNATA

Considerato tutto ciò detto fino ad ora:
  • la vita giusta è la vita vera.
Eppure:
  • la vita sognata gode della stessa qualità di verità e giustezza poiché il sogno è un'attività mentale come un'altra.
Quindi:
  • non vi è alcuna differenza fra sognare un accadimento e l'avvenimento effettivo dello stesso. Il nostro capo è in grado di prevedere gli accadimenti anche grazie all'attività onirica, e non vi è perciò nessuna sorpresa né scatto di rabbia sul susseguirsi degli eventi, sognati o veri (e ribadiamo che ci troviamo qui di fronte all'omonimia). Siamo pur sempre chiens gentils;
  • la vita sognata è intrapresa con la medesima serenità della vera. La Ragione ci rende tranquilli poiché ci avvaliamo del Vero. PenZiero = Ragione = Vero = Sogno.

SULLE VITE SOGNATE
Che:
  • utilizzando l'accezione profana di sogno siamo coscienti che la nostra non è l'unica vita possibile.
Ma è anche vero che:
  • il PenZiero ci permette di stare dalla parte della Ragione per cui per noi QUESTA è l'unica vita possibile, vera, che può essere sognata, perché il PenZiero non è uno solo, considerato che ciascuno ha il suo ed è quello che si merita, ma segue dei criteri alquanto fissi e ben precisi di rottura e aberraZione nonché propriamente di distinZione dell'individuo dalla massa.
Ma è altrettanto vero che:
  • se il Sogno ed il Vero si equivalgono, nel momento stesso in cui sogniamo la vita di terzi, noi viviamo effettivamente quell'altra vita.
Considerato ciò:
  • siamo in grado di sognare e quindi ugualmente vivere invero chi vogliamo ed essere contemporaneamente il capo di chiunque. Questa prospettiva ci permetterebbe potenzialmente di conquistare il mondo, se non altro nel caso in cui considerassimo il termine capo nella sua accezione banale;
  • allo stesso modo, qualunque altro essere penZante può sognare e vivere la nostra vita, che non sarà mai la nostra, ma la sua, sarà una verità nel suo capo. Ma essendosi questo individuo avvalso del PenZiero e del Sogno per intraprendere quest'impresa gli spetta il Vero e a noi ci tocca sottoscrivere.
Preso atto che le vite sono molteplici è bene disquisire ora


SULLE VITE (IN GENERALE)
affermando che:
  • Guardiamo gli altri vivere e li consideriamo nella migliore delle ipotesi come delle menti (capi) penZanti contornate da un corpo materiale;
  • Essendo spesso questo corpo di forma molto buffa, ci auguriamo in quel caso che il capo degli individui corrisponda alla forma del corpo, considerata da noi VERAMENTE buffa (attenzione però a considerare il corpo come verità. Si cadrebbe in fallo poiché questo fa parte di un ambiente esterno in cui il Vero non esiste);
  • Le vite degli altri ad ogni modo ci riguardano ben poco a meno che non vengano da noi sognate. Non siamo né malvagi, né indisponenti, né siamo giovani arrabbiati (non troppo); diciamo ad ogni modo proprio perché è una considerazione accessoria, e riprova ne sia il breve discorso, che segue,

SULLA TOLLERANZA
SULL’INTOLLERANZA
  • Guardare, vedere, osservare, scrutare e infine esaminare; sentire, ascoltare, origliare e infine pensare. Parlare? Rispondere? Esprimere accordo o disaccordo? Esternare un'idea che dice tutto del tutto e niente del niente? La tolleranza ha un limite come la pazienza? Lo ha nel momento in cui avvertiamo un disturbo. E il disturbo c’è, si presenta: prima o poi deve essere affrontato;
  • la tolleranza ha il limite che le vogliamo attribuire. Il nostro ordine delle cose è un ordine nel disordine: verrà sempre qualche altra cosa a disturbarci, magari proprio un attimo dopo che abbiamo dato spazio a una delle tante cose che non riuscivamo ad accettare (intolleranza);
  • la tolleranza è una scala infinita da scendere. L’unica cosa da fare è osservare e ascoltare e, se ne abbiamo voglia, parlare della visione e dell’ascolto. Così nasceranno le idee intolleranti che alla fine accetteremo: perché le inscatoleremo nel nostro ordine delle cose, che non è altro che il nostro, misero, ordine;
  • la tolleranza è sorella dell’intolleranza. La rabbia è pienamente giustificabile, le offese pensate o magari sputate atrocemente in faccia, pure: ci saranno sempre due o più individui che penseranno di essere intolleranti e che al tempo stesso scenderanno la scala della tolleranza. Le parole e i gesti non bastano: è questo uno dei limiti attribuibili alla tolleranza, poiché questa nasce dal silenzio;
  • la violenza e la cattiveria nascono dalla non accettazione della tolleranza, dal fermarsi solamente a guardare e a sentire, dal rifiutarsi di scendere la scala: e si può benissimo vivere fermi. Anche queste azioni ostensive finiranno per essere tollerate o dimenticate, che forse è la stessa cosa. L’intolleranza serve a parlare, la tolleranza a stare in silenzio a covare, per l’ennesima volta, intolleranza;
  • ci tollererete anche nel disaccordo, a meno che non vogliate restare fermi. Tutto ciò non servirà certo a renderci più sollevati.
  • Parliamone.

SULLO STUPORE
Che:

  • sappiamo che una volta vi ricorderete di noi, perché crediamo nei ricordi anticipati, racchiusi in quell’aaaahhhh di stupore per vedere accadere una cosa così scontata e ovvia che appare immediatamente così vera; e subito vi renderete conto che la sua veridicità è proprio nel suo essere già stato ricordato.
  • La mente fa confusione tra passato e futuro, tra previsione e accaduto. La mente sfugge alle regole del tempo, non è lineare; lo stupore ci sorprende per punirci e legarci al mondo, al disordine crescente della sostanza materiale.>Stupore, stupidore, stupidità. La stupidità, questa nostra condanna quando è degli altri, questa nostra maschera quando è la nostra; senza un filo di superbia ma con tanta concezione del vero e disprezzo per la falsità, e per l’imbecillità. E dunque:
  • Lo stupore degli altri, inconscio, non vissuto interamente perché non realizzato mai se non come manifestazione di uno stimolo non categorizzato, o più puramente non percepito diverso da una qualsiasi reazione biologica; sintomo della malattia della stupidità.
  • Lo stupore nostro, una copertura contro la banalità, noi che sappiamo che il tempo è quello che è e non ne rimane più tanto per raggiungere gli obiettivi prefissi; uno scudo contro la noia, che viviamo però con un non so che di giocoso. "Ma dai!", ci ripetiamo stupidamente senza un filo di sorpresa.
  • Non serve far uso di sostanze stupefacenti per restare stupiti (e nemmeno stùpiti) ma per fuggire dalla stupidità a volte vorremmo perdere l’uso della ragione, tanto insopportabile ci sembra. Stupidità = Banalità; e questa parola, così sferica, lontana metafora delle sfere più basse che aumentano il loro volume proporzionalmente alla nostra noia, rappresenta per noi tutto ciò che è in correlazione con il Tutto, cioè tutto ciò che è compres(s)o nelle dimensioni canoniche di spazio e tempo. A questo noi Chiaramente – niente di protagonismi – opponiamo l’istanza del penZiero. E infine, per stupirci ancora forse ne faremmo uso, di quelle sostanze, ma per intanto la stupidità riesce ancora a stupirci. Stapparci.

SUI PARCHI

  • Nelle diverse accezioni, negative o positive dipendendo dal contesto, e ci venga ora perdonata la banalità della descrizione, la quale è adesso un processo di attribuzione per correlazione, tuttavia necessario perché alla fine queste cose le leggeranno tutti anche se non tutti le capiranno. I parchi naturali, i parchi di divertimento, il divertimento dei parchi e la loro natura; inoltre, per questioni di genere, le parche e le Parche (sapendo che la mente corre, dovremmo dire anche dei porchi e delle porche; difatti tutti avranno già modificato per apofonia la vocale).
  • C’è un parco a Parigi, Lutetia Parisiorum, che è quello delle Tuileries. Ivi, dopo medici che avevano dato le proprie cure a im-pazienti dalla poco robusta Costituzione, c’è stata una manifestazione del pensato impressa nell’immagine digitale (e in un quadro di Boccioni). Con che naso lungo! Era il dicembre 2008, quasi 2009; anche se la Storia per ora non si ricorda di altri che Luigii (più di uno). Non disperiamo di avere tanta fama anche noi, poca fame come loro e una fine per lo meno dignitosa, senza ceppi e senza cappi (come loro – e sans K, la nostra politica linguistica non avrà certo paura di questa lettera ma non siamo per le contestaZioni di massa e per le oKKupazioni).
  • Al Paseo del Prado, non parco di alberi, Velazquez ha visto la luce, o ha fatto la luce. FIAT LUX, o SEAT, considerata la nazione, la radice verbale, la metrica e molti altri aspetti formali e stilistici. È una pena vederlo rinchiuso in quegli stanzoni pieni di quadri e di adattamenti linguistici per cui accenti strani si pongono ove nessuno li avrebbe prima d’ora immaginati (senza chiedere a nessuno). Manca Miguel Angel, ballerino di flamenco e pittore a tempo perso, con il suo nasino piccino.
  • Siamo al congiuntivo parchi nelle nostre escursioni. Non visitiamo parchi senza significato, neanche fosse per trovare un parcheggio. Parcheggiamo nel parcheggiare vicino ai parchi, andiamo a piedi a parcheggiare.
  • Siamo parchi in tante altre cose, non ultimo nel dare le nostre opinioni vere in pasto a chi non è parco di parole. Non vorremmo che l’oralità sostituisse il nostro messaggio, sappiamo giocare al telefono (non solo quando le distanze lo impongono) e sappiamo perciò quanto cambia il messaggio a causa del mezzo, per di più se difettoso.
  • Non siamo parchi. Non fate di noi un luogo dove passeggiare col pensiero, e col pensiero dedicarvi alla copula virtuale. Che è la masturbazione, e nulla di quanto qui sopra scritto è una pippa mentale. Perché:
  1. Non ve lo lasciamo fare. Le regole dei parchi pubblici valgono anche per le nostre opinioni (vietato lasciare merde in giro, se avete una stronzata da dire munitevi di paletta e sacchetto – per atti osceni in luogo pubblico, adesso che pubblichiamo, c’è una sanzione);
  2. Per la stessa ragione del telefono, aggiungeremmo che verba volant, scripta manent, e in questo caso anche l’erba (e l’albero a cui tendevi la pargoletta mano).
Ma soprattutto:
  • non siamo parchi, ci diamo con generosità a chi ci richieda. I pochi che ci richiedono, ché pochi sentono il desiderio vero di qualcosa di anti accademico. Ci faremmo mangiare in nome della Verità, ma non crediamo troppo che la via per raggiungerla sia dialogica, né che sia il colon (né Colòn, per dirle tutte con grandi evoluzioni del pensiero barocche ed arrivare da lontano al concetto della miscigenação, visto che il mondo è sferico e da qualsiasi punto arriviamo a quello che ci interessa – prima poi. Siam pur sempre toscanelli);
  • parche, per motivi di genere, e pur in maggioranza nella stesura di questo documento, ma la mente non ha sesso. Non doveva essere scritta questa riga, è un dono all’imbecillità, si situa in quote rosee e non in alta quota, dove volano gli aerei mobili futuri (che saranno stati);
  • parche con il nome lordo, ci fanno credere che il tempo sia un filo retto. Mentono loro e ancor più chi loro crede di saperle capire.
  • Perché? Non esistono né la causa materiale né quella efficiente. Dubbi sulla materiale e sulla formale. In generale, vediamo nel concetto di causa e conseguenza il tempo lineare; puttanate.
  • Ci piace non poco la capacità che alcune lingue hanno e che la nostra allegramente ignora, limitandosi. Le grammatiche descrittive hanno avuto il loro momento di gloria nelle bocche ormai polver(os)e ma che non la vogliono smettere di pontificare. Immaginiamo la capacità agglutinante del tedesco o quella di creare parole da parole, come l’inglese. Noi vorremmo che questo concetto della creazione, demiurgica e tuttavia limitata, entrasse nell’uso italiano, o di altra lingua, e che altra lingua apprendesse ulteriori tecniche ancora sconosciute. Procedimenti nuovi, e questo discorso c’entra proprio ora a fagiuolo perché parco, parchi – cum aliis – ben si prestano a certe pratiche. Noi desideriamo usare la parola parco, solo per motivi contingenti, ovvero perché ci stiamo lavorando ora, e vederne tutte le possibilità; possiamo anzi aver già cominciato a parcheggiare alcune possibilità della parola, in altri termini, quanto di parcheggiabile esiste, senza parchimetri che ci limitino, senza quindi essere parchi (o parche). Tutti possono farlo, tra le altre cose, par che noialtri;
  • Parcere superbos et debellare subiectis (perché nessuna condizione dello spirito è immeritata, e noi siamo i Governatori della nostra mente). Pronuncia non ecclesiastica, imbelli.

SUL RISO

Che:
  • Abbonda nella bocca degli stolti, fatto salvo Arlecchino che diceva la verità burlando;
  • Gli stolti non abbondano nella bocca del riso, perché è talmente piccina che non ce n’entra nemmanco uno;
  • Oggi più che mai il nostro paese, la nostra nazione ha bisogno di ridere. Siamo tristi fin dentro le ossa, lo stesso sangue che si produce dentro di esse risulta tanto amaro, infetto delle peggiori angustie. Abbiamo portato il riso in politica, e le repubbliche popolari non sono il nemico, pur non essendo neanche la soluzione. Sono il problema: l’economia con economisti tristi, la legge con legislatori emaciati dai cancri al cuore, cocainomani sempre svegli con le pupille dilatate dalla cupidigia. O grassi pieni di grassi, saturi. Plastiche mollicce e durissimi siliconi dietro cui si nascondono larve da pesca, pescecani per pesci cani. La nostra moda esprime la vocazione alla nostalgia di cui siamo portatori, colori scuri con decorazioni decadentemente barocche, brillanti che respingono ipocritamente la vacuità di chi vi si specchia, dalle vetrine dei desideri, o di coloro che l’indossino, con repulsione travestita da lusso. Il desiderio: la speranza in un domani migliore fatto di cibo sintetico con marchi di qualità, solfiti denominazione di origine controllata; e parole senza i significati che abbiamo appreso, mutUati. In questo dovrebbe essere l’ironia: nella contrapposizione tra il vero oggettivo e il vero circostanziato, nel senso che una parola assume in contrasto con la sua sostanza ancora visibile, ancora apprezzabile. Eppure no, non sappiamo vederci del comico. Un uomo dal dubbio sorriso sanissimo, eppure per noi rimane non comico, serissimo, per la serietà della nostra risibile società; una morale, orrore di parola di per se, per di più legata a credenze medievali ci imprigiona e ci impedisce di scatenare l’arma più potente contro il potere, la risata. Siete capaci di sopportare qualsiasi cosa, anche il ridicolo, senza un sorriso, o un riso amaro per la Giustizia frustrata;
  • Questo primo piatto che soli in Occidente consideriamo tale. Ignoriamo che serva anche da contorno per più di un secondo: saltato in padella, con carne, e patate e cavolfiori lessi. Insaporito con la cipolla, e un dadino, ottimo con uno spezzatino. Le commoventi formine semisferiche che accompagnano le carni alla piastra. Italocentrici del riso;
  • Lo useremo come vendetta, speriamo vi piacciano i sottaceti;
  • Chi non ride in compagnia magari non è un ladro, non fa la spia ed è anche figlio di Maria (quando capiti), però non è simpatico portarselo dietro.

SUGLI ACCESSORI

Che:
  • sono la via d'accesso allo stile, inteso jacobescamente come volontà di esteriorizzare un moto interiore. Per questo gli accessori che usiamo sono ironici: perché esteriorizzare significa ai nostri occhi falsificare il penZiero, scatenando così un sentimento del contrario poiché il Vero si trova solo dentro noi stessi;
  • non ci riferiamo parlando di accessori banalmente a borse e cinture, ma ai dettagli in generale. Riteniamo difatti di massima importanza l'utilizzo appropriato in primis dei dettagli grafici, quali accenti, punteggiatura, dieresi, tilde e così via. Non si accede al penZiero senza accessori, che sono sì ironici, ma ricordiamo anche che l'ironia è una cosa serissima.
  • Accessorio è il superfluo. Siamo nati nudi, molti di noi senza camicia, e neanche in seguito ne avranno mai una; ma nudi non è solo esserlo nei fatti, è esserlo di aggettivi. Il sesso: quello ci hanno dato, per certo, come scontato. Gli attributi, quindi, più che gli aggettivi; eppure neanche in quello abbiamo la certezza di ciò che siamo, perché la sostanza non implica mica la funzione. Pensate al Papa, basta un accento è già cambia la funzione, proprio sessuale, sì sì. Nasciamo materia e pensiero, e nella prima le poche marche che sembrano categorie già sono per l’occhio vispo sfuggenti; il secondo è un campo scevro che non necessita della struttura per essere essenza. Avremmo bignami arrotolati al cordone ombelicale, se la nostra Natura fosse incompleta per l’esistenza. Lo è tuttavia per l’esistenza sociale: per cui facciamo di tante erbe un Fascio e con la violenza creiamo categorie per attribuirci quello che terzi hanno voluto che noi fossimo (per contrasto o correlazione). L’uomo è più della genetica, anche sociale. Per questo l’accessorio è un gioco: è un di più, un vezzo, un’arma ancora una volta, di difesa (un’arma bianca, si capisce). Ve lo prendiamo dalle mani e ne facciamo uno scudo e poi un bastone pastorale per tirare un po’ le fila della situazione; non vogliamo che si smetta di aggettivare le cose, anzi, crediamo che si debba continuare a farlo;
  • vogliamo che attribuire un accessorio sia un'azione libera, non strutturata; percepiamo perfettamente le esigenze di concordanza di numero e genere che sono nella nostra lingua, ma che comunque non sono in tutte le lingue, e, pur rispettandole, crediamo che si possano eliminare altri tipi di struttura. Possiamo creare nuovi aggettivi; o più, aggiungere o togliere in maniera arbitraria lettere alle parole, così che se ne vengano ad aggiungere di nuove, accessorie. O dare significati accessori alle parole, facendone risorgere di passati o inventandone di nuovi.

SUGLI ASCENSORI

Che:
  • Preferiamo adoperarli per salire più che per scendere;
  • Detestiamo trovarli affollati (affollato significa la semplice presenza di qualcun altro);
  • Ci piace rifarci il lùc quando ci troviamo al loro interno, e riunire ivi le idee;
  • Li consideriamo luogo di annullamento spazio-temporale, per questo dimentichiamo spesso i momenti trascorsi al loro interno;
  • Non ricordiamo di avervi mai messo piede.

SULL'INGOMBRO

Che:
  • Definiamo ingombro ciò che non ha diritto di presenza, pur essendo presente;
  • Lo spazio è a volte pieno di inutile, e diciamo che è ingombro;
  • Un oggetto particolarmente sgradito, per situazione temporale, sociale, spaziale, è un ingombro;
  • La parola è classica, perché l’orrore della pronuncia ci risulta tanto sgradito quanto l’ingombro medesimo;
  • Sappiamo che l’unica soluzione per eliminare l’ingombro è lo sgombero, in quanto esso non se ne andrà mai da solo, e non dobbiamo fare confusione con lo sgombro (Scomber Scombrus). Ci teniamo alla chiarezza della cosa perché implica quello di cui ci accusano i più, ovvero l’arroganza linguistica: noi non crediamo che sgombero e sgombro siano due cose precisamente distinte, anche perché uno può prendere a pesci in faccia un imbecille, ed in questo caso il mezzo dello sgombero sarebbe lo sgombro. O dello sgombro lo sgombero; lo sgombro lo sgombro, ed infine lo sgombero lo sgombero (anche come “lo sgombero, lo sgombero!”, sia di allarme che di rassicurazione). Mai sarebbe lo Scomber Scombrus con la prima persona del verbo sgombrare – a questo punto sgomberare ? – e questo dimostra che la sostanza ha quasi sempre la meglio sulla forma; e le verità dette dai pesci normalmente hanno una certa risonanza (basti pensare al greco, e tutti ci siamo CAPI-ti, chi non ha capito non capirà neanche se lo scrivo, sive ICQUS scritto in greco). Quindi, lasciate da parte le vostre correzioni, usiamo le ambiguità per creare; da ultimo, parlate come mangiate, mangiate lo sgombro (se vi piace come suona).

SUI MANIFESTI

Che:
  • Sono indispensabili laddove si voglia rendere palese e forte una nuova visione del mondo;
  • Senza tale strumento quanto affermato risulterebbe campato in aria, o areato in campo, e facilmente potrebbero nascere accuse di incoerenza o nella peggiore delle ipotesi di mera stupidità. Con questo i firmatari non pretendono di dire la verità, in quanto il manifesto è dopo tutto esterno a loro stessi;
  • Il nostro manifesto è stato redatto pigramente ma in maniera comunitaria, e soprattutto a distanza. Lo spazio interposto fra i nostri capi ne amplificherà la risonanza;
  • È un accessorio, ironico, serio, un accessorio. Guardate all'esterno cos'abbiamo dentro e sbagliatevi lo stesso;
    • Manifesto anche perché fatto a mano. Siamo gli artigiani di noi stessi;
    • La natura del nostro manifesto è indiscutibile e se il lettore è un essere penZante ne comprenderà appieno il motivo.
    g.c., NêZ, M.M.
    _______________________________________________

    NOTE

    * L'idea di retroguardia è stata suggerita dal grandissimo filosofo portoghese Ricardo Grácio.

    ** VULPS: agg. e s. m. - f. [Nêz, B. D. R., ca 2002]. Ghighi con una nota di furbizia. Generalmente si connota per particolari associabili ad un cane volpino, quindi pelo, occhi piccoli e furbi; riferibile anche alle persone anziane, in particolare ai loro piedi. Sost. vulpsata, vulpsaggine. Superl. vulpsissimo/a. Es. Non si può negare che Ciro, il volpino nano, sia il - per antonomasia.
    (Per qualsiasi ulteriore chiarimento sulle definizioni dei neologismi, consultare liberamente il glossario contenuto in questa pagina)

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